Avola non riavrà dalla Norvegia l’antica testa di marmo
L’incredibile caso del reperto archeologico
che non potrà essere restituito alla città di Avola
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Tratto dal libro “Avola. Crogiuolo di cultura, civiltà e culti religiosi”
di Attilio Mangiagli ©
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Nel 1951 io e il mio amico Nino, incuriositi da due giare del diametro di circa un metro, incastonate nel muro di cinta nell’angolo dell’incrocio tra la provinciale che porta a Balata e la trazzera di Piccio prima di arrivare al guado dell’Asinaro, chiedemmo al proprietario del terreno delimitato dalle due strade il permesso di mettervi le tende scout.
Una settimana incredibile, avreste dovuto vedere con quale interesse e voglia di imparare le nuove reclute scout si dedicavano alla ricerca delle loro radici raccogliendo cocci per cercare di capirne il loro significato e il loro valore storico culturale. Chissà se fra i lettori di questo libro ci sarà qualcuno che ricorderà di aver partecipato a questa avventura.
Io e Nino cercammo di capire cosa veramente si celava nel sito, l’inspiegabile groviglio di cocci, pezzi di anfore o vasi romani, tessere di mosaico e, blocchi di arenaria, da un canto, testimoniavano l’esistenza dei resti di una villa romana, dall’altra testimoniavano, non solo il risultato delle arature profonde del vomero, ma un immane disastro ecologico che sembrava essersi abbattuto proprio lì.
Oltre ai cocci trovammo un camminamento sotterraneo che disgraziatamente non percorremmo per intero, coperto di lastroni di pietra calcarea, forse del periodo greco e che secondo noi non poteva essere altro che l’incanalamento del fiume/torrente Boghini che sboccava sull’Asinaro.
Tornammo sul posto nel 1955 perché avevamo promesso di farlo vedere a degli amici norvegesi che si sarebbero trovati ad Avola in quel periodo. Ripercorrendo i luoghi già esplorati nel ‘51 e i terreni limitrofi, ci accorgemmo che c’erano altri blocchi ma di arenaria e di grandi dimensioni, frammenti di colonne di circa 40 centimetri di diametro e sempre tanti cocci.
Durante l’escursione mi allontanai dall’altro lato della strada e con mia grande sorpresa scoprii, in un cumulo di pietrame che si era staccato dal muro di cinta, una testa di marmo di circa 12 centimetri di diametro che consegnammo al proprietario del terreno che si trovava nei paraggi. […] L’austerità del volto e lo sguardo degno di un dio mi suggerirono di battezzarlo “Zeus”, ma avrebbe potuto essere Asklepio o qualche dignitario del posto. Forse non lo sapremo mai.
[…] Giorni dopo portammo con noi gli amici norvegesi, lo scultore Knut Steen e il pittore Frithjof Tidemann Johannessen con le rispettive famiglie. Rimasero stupiti della quantità di reperti. Quando gli ospiti salutarono il proprietario del terreno vicino, questi credendo di aver riconosciuto in Knut un commilitone polacco della seconda guerra mondiale, prese la testa di marmo descritta e gliene fece dono. Il nostro stupore e disappunto erano alquanto evidenti, ma Knut aveva già accettato il dono e, quando ripartì, portò la testa via con sé in Norvegia.
Il 26 gennaio del 2003 scrissi a Knut dicendogli che quella testa non poteva rimanere in Norvegia perché faceva parte della storia di Avola e le apparteneva. Knut mi rispose che avrebbe restituito il reperto a condizione che venisse conservato in un museo ad Avola. La consegna sarebbe dovuta avvenire soltanto quando lui o chi per lui avrebbe avuto in mano un documento valido attestante che la testa sarebbe stata esposta nel museo di Avola.
[…] Per quanto riguarda la villa, questa, molto probabilmente non esiste più. Non sono stati fatti scavi da parte delle istituzioni e nel terreno è stata costruita una villetta e le giare sono state sostituite da un’edicola votiva. Nei terreni limitrofi, sia a est che a ovest della strada che porta alla Balata, in tempi diversi, sono stati fatti diversi rinvenimenti di manufatti e monete antiche.
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Purtroppo, la testa di marmo rinvenuta nel 1951 da Attilio Mangiagli e incautamente consegnata nel 1955 dal contadino al norvegese Knut, non è stato possibile restituirla alla città di Avola per la mancanza di quel “documento valido”, come unica clausola attestante che il reperto archeologico sarebbe stato esposto in un museo ad Avola. (Angelo Severino)
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