Garibaldi Giuseppe, di professione pirata

Garibaldi Giuseppe, di professione pirata

GARIBALDI

Garibaldi processato a Palermo e a Napoli,
condannato per aver commesso decine di crimini
di Angelo Severino ©
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Garibaldi fu comandante di mercenari e di predoni,
di professione faceva il pirata.

Era bello, alto, biondo e con gli occhi azzurri. Era l’Eroe dei due Mondi. Nella primavera del 1955 la Lampo Edizioni aveva messo in vendita nelle edicole l’album e le figurine sulla “Vita di Garibaldi”. Noi ragazzi passavamo interi pomeriggi a mercanteggiare i doppioni con le mancanti. Fra le più rare vi era quella di Giuseppe Garibaldi che, addirittura, bisognava sacrificarne venti per averla e per poi incollarla orgogliosamente sull’album.

Prima del Sessantotto, che ci avrebbe regalato altri dissennati ideali e altri seri danni, noi giovani desideravamo diventare intrepidi come lui era stato. Indossavamo una camicia rossa e… voilà, ci trasformavamo in piccoli garibaldini pronti a portare libertà e ricchezza là dove c’era miseria e schiavitù cantando Fratelli d’Italia. Ma, diventati adulti, ci siamo chiesti: di quale libertà e ricchezza, di quale spirito patriottico garibaldino e di quali fratelli d’Italia noi parlavamo se questi “fratelli italiani” ci vennero a massacrare addirittura in casa nostra?

Ed è per questo motivo che Garibaldi Giuseppe va riconsiderato e va soprattutto processato storicamente per i tanti suoi reati e per le sue malefatte. Poteva poi un finto eroe, com’era appunto Garibaldi, aggredire uno Stato sovrano, com’era appunto il Regno delle Due Sicilie e, calpestando ogni diritto internazionale, sbarcare in Sicilia, a Marsala, protetto dalla flotta e dal governo britannico?

La storia ufficiale, nel raccontare le leggendarie imprese dei garibaldesi, ha trascurato tuttavia di citare le parole pronunciate dal medesimo Garibaldi a proposito della sua armata, quando il 5 dicembre 1861, a Torino, nell’aula del Parlamento italiano, aveva definito gli stessi suoi garibaldini «tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto».

In Sicilia, oltre ai ventimila soldati piemontesi, nel 1860 sbarcarono anche migliaia di mercenari della peggiore specie reclutati in Inghilterra, Francia, Polonia e altri Paesi europei e non. Approdò inoltre in Sicilia la tanta famigerata legione ungherese che, dopo l’occupazione, verrà impiegata principalmente per le repressioni più spietate.

Già a quell’epoca era stato inventato il mito Garibaldi come l’Eroe dei Due Mondi, che pur nascondeva un passato tutt’altro che limpido. Giuseppe Mazzini nientemeno lo considerava inaffidabile e Vittorio Emanuele, da parte sua, non aveva gran stima tanto che, scrivendo a Cavour, ebbe a dire:

«Come avrete visto, ho liquidato molto rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene certo, questo personaggio non è affatto docile né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio, l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa».

Ed è per questa ragione che le imprese garibaldesche vanno riesaminate e sottoposte nuovamente, con serenità e obiettività, al giudizio dei tribunali della storia. E in tal senso si sono mosse diverse associazioni culturali.

Garibaldi processato a Palermo
è stato accusato di decine di crimini.

A Palermo nel mese di dicembre 2007, nella ricorrenza del duecentesimo anniversario della sua nascita, si è svolto un ennesimo processo a Garibaldi con lo scopo di indagare su come sia stata conquistata la Sicilia e su come, con il sostegno militare, navale e con i quattrini della Gran Bretagna che era la più grande potenza economica e militare dell’epoca, l’Isola sia stata ridotta in colonia. Garibaldi, Vittorio Emanuele e i padri della patria italiana non erano altro che mosca cocchiera del governo di Londra.

Nella qualità di uno degli esponenti dell’accusa a Garibaldi nel processo palermitano è stato Giuseppe Scianò che ha evidenziato che

«attraverso questa inchiesta si vuole rivendicare anche il diritto da parte del Popolo Siciliano, della Nazione Siciliana, di procedere al recupero della propria memoria storica, contro ogni tentativo di alienazione culturale e di negazione del diritto a difendere la propria dignità».

Fra i capi d’accusa contro Garibaldi citiamo, a mo’ d’esempio, i delitti contro l’umanità; le violazioni dei diritti fondamentali dei popoli; le stragi, le violenze, i saccheggi e le espoliazioni anche nei confronti di cittadini inermi (delitti, questi, riscontrati nei territori del Regno delle Due Sicilie e nel Sud America).

Vi è poi l’aggressione armata, senza dichiarazione di guerra, al Regno delle Due Sicilie per conto di Vittorio Emanuele II di Savoia, aggravata dall’abbondante uso di mercenari particolarmente crudeli e violenti, talvolta provenienti anche da paesi extraeuropei e dall’utilizzazione su larga scala di associazioni a delinquere. E ancora: la riduzione della Sicilia e della parte continentale del Regno delle Due Sicilie in colonie di sfruttamento.

Contestati a Garibaldi Giuseppe pure i tanti casi d’abuso di potere, di malversazione aggravata e continuata, di corruzione, di violazione della legislazione sugli usi civici vigente in Sicilia a danno dei contadini e a favore dei propri seguaci.

Pesanti anche le accuse di persecuzione degli ordini religiosi, l’interruzione e lo smantellamento (senza alcuna adeguata sostituzione) dei servizi scolastici, assistenziali, sociali e sanitari. Servizi di grandissima importanza che, com’è noto, in Sicilia e nel Sud erano gestiti prevalentemente dagli ordini religiosi.

Mafia e Garibaldi

Nel napoletano, a Castel Capuano il 13 aprile 2002 si era già svolto un altro processo al cosiddetto Eroe dei Due Mondi. Il capo d’accusa era di

«avere invaso, senza alcuna dichiarazione di guerra, un Regno legittimo, sovrano e indipendente provocandone l’annessione a un altro, con notevoli danni morali, civili ed economici per le popolazioni del mezzogiorno».

Durante il processo sono stati, tra l’altro, consegnati al collegio giudicante una serie di documenti che dimostrano la colpevolezza dell’imputato Garibaldi. Fra le prove vi è una copia dell’intervista rilasciata al quotidiano “Cronache di Napoli” dallo storico Stanislao, discendente di Ippolito Nievo, a testimonianza del fatto che il piroscafo Ercole, partito da Palermo il 4 marzo del 1861, affondò per un attentato. Fra le 78 persone a bordo c’era anche Nievo, custode di tutte le carte della spedizione dei Mille e delle successive operazioni militari.

Quelle carte avrebbero dimostrato la corruzione dei garibaldini, i loro furti e soprusi con la complicità di alcuni traditori borbonici. Ai giudici è stata anche consegnata una copia della relazione dell’ammiraglio inglese Mundy, dalla quale emerge il totale coinvolgimento britannico nelle operazioni garibaldine.

Un discorso a sé merita la falsità del plebiscito che annetteva il Regno delle Due Sicilie all’Italia. È dimostrato che votarono, anche più volte, non solo gli aventi diritto ma anche gli stranieri, le donne, i mercenari garibaldesi e persino i bambini.

Garibaldi, trafficante di coolies cinesi,
fu uno spericolato bandito in Sud America.

Durante il processo sono state inoltre depositate le dichiarazioni del capitano garibaldino Forbes, secondo il quale «non una sola casa di Palermo era disponibile ad accogliere i feriti garibaldini», e di Luigi Carlo Farini per il quale «nel novembre del 1860 non erano più di cento i sostenitori della causa garibaldina».

Vi è poi l’affermazione di D’Azeglio che, oltre ad aver definito Garibaldi «una nullità assoluta come intelligenza», pensava che «non abbiamo diritto di tirare fucilate su altri italiani che non ci vogliono». E c’è la copia della lettera che lo stesso Garibaldi scrisse nel 1868 ad Adelaide Cairoli in cui rivelava: «Non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi cagionato colà solo squallore e suscitato solo odio».

Alla fine del processo di Napoli, l’imputato Garibaldi Giuseppe è stato condannato «per avere invaso, senza alcuna dichiarazione di guerra, un regno legittimo». Il presidente del tribunale ha poi dichiarato «non eseguibile la condanna per impossibilità materiale di notifica all’imputato Garibaldi Giuseppe». E questo sicuramente non per mancanza di ufficiali giudiziari.

Infine, c’è da registrare la complicità e la collaborazione attiva e diretta di Garibaldi con i trafficanti di braccia e di vite umane. Infatti, egli ebbe per diverso tempo il comando di una nave e il compito di trasportare “coolies”, cioè lavoratori schiavizzati e letteralmente privati di ogni diritto civile e sindacale, che erano spesso prelevati di peso dai trafficanti di alcune zone della Cina per essere trasportati come destinazione finale, dopo la traversata dell’Oceano Pacifico, nelle isole e in alcune zone costiere del Perù.

Venivano utilizzati per spalare il guano accumulatosi nel tempo e destinato a concimare grandi estensioni di terreno agricolo nel continente americano. Dopo i disagi del viaggio, questa povera gente in stato di semischiavitù, era condannata a lavorare senza sosta e in condizioni disumane, sia per la pesantezza del lavoro sia soprattutto per le esalazioni tossiche del guano e per il degrado dell’ambiente inquinatissimo dove questi schiavizzati erano costretti a vivere. La maggior parte di loro moriva dopo qualche anno.

A conclusione di questo breve excursus sui misfatti di Garibaldi Giuseppe, dobbiamo riconoscere che, a prescindere dalle iniziative singole, si è messo in moto in Sicilia e nell’Italia Meridionale un vero grande processo di revisionismo storico che nessuno potrà mai più bloccare. Il Popolo Siciliano è stato, fin troppo a lungo, sviato culturalmente.

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