Vespro Siciliano 3 – La vittoria dei Siciliani

Vespro Siciliano 3 – La vittoria dei Siciliani

Vespro Siciliano.
Dalla guerra alla pace di Caltabellotta.
del prof. Corrado Mirto.

TERZA PARTE

La vittoria dei Siciliani.

Il principe Carlo e i suoi si difesero valorosamente nella poppa della nave ammiraglia già invasa dai nemici, i quali alla fine aprirono falle nel fondo della nave. E così, mentre la galea si inabissava, i superstiti furono costretti ad arrendersi per salvarsi. Il disastro fu completo. Dalla terra ferma una delegazione di regnicoli venne nella nave ammiraglia siciliana a congratularsi per la vittoria e a esprimere l’augurio che in seguito venisse catturato anche Carlo I. Le congratulazioni furono ricevute dal principe Carlo, che i delegati avevano scambiato per Ruggero Lauria. A Napoli scoppiarono violenti tumulti con uccisioni di Francesi. La moglie del principe Carlo aveva assistito alla battaglia navale dal suo castello sulla riva del mare, aveva visto le navi in fuga e l’ammiraglia affondare, ed era per questo preoccupata per la sorte del marito. Ebbe notizie del principe Carlo da due galee siciliane che approdarono presso il castello.

I Siciliani portarono una lettera di Carlo nella quale si ordinava di liberare dal carcere una figlia di Manfredi, Beatrice, sorella della regina Costanza, che, rinchiusa in prigione nel 1266 dopo la sconfitta e la morte del padre, dopo diciotto anni era ancora tenuta prigioniera dal diletto figlio della Chiesa Carlo I. Per rendere la richiesta più convincente gli inviati siciliani chiarirono che se Beatrice non fosse stata liberata il principe Carlo sarebbe stato subito decapitato e, siccome con la cortesia si ottiene tutto, la povera figlia di Manfredi fu tolta dalla prigione e consegnata ai Siciliani.

Mentre nel golfo di Napoli si svolgeva la battaglia, Carlo I, con la flotta provenzale, arrivava ai confini del Regno. Appena sbarcato a Gaeta apprese la notizia della cattura del figlio. Il risentimento per la sconfitta, provocata dal fatto che non erano state rispettate le sue disposizioni, prevalse sul dolore per la prigionia e l’incerta sorte del principe. Avrebbe avuto motivo di essere molto preoccupato pensando a possibili rappresaglie per il trattamento che egli aveva riservato a Corradino di Svezia, invece dichiarò di essere dispiaciuto più per la perdita della flotta che per la cattura del figlio.

Aggiunse che sarebbe stato meglio che il principe fosse morto, poiché non aveva ubbidito ai suoi ordini. Arrivò a Napoli con un umore nerissimo. Voleva incendiare la città per punirla dei disordini contro i Francesi; alla fine, per le pressioni dei nobili e del legato pontificio, si limitò a fare impiccare circa centocinquanta persone. Il 14 giugno scrisse una lettera trionfalistica al comune di Pisa, comunicando che le navi nemiche erano fuggite e che la cattura del principe non era un colpo grave perché egli aveva molti eredi, figli di suo figlio. Informò inoltre i Pisani che a Napoli aveva cinquantaquattro galee, sette galeoni e molte navi, a Brindisi venticinque galee e settanta teride, a Nicotera sette teride. Conclude scrivendo che si stava preparando a partire per lo sterminio dei ribelli.

La reazione di Carlo I.

Carlo I presto passò dalle minacce ai fatti. La flotta raccolta a Napoli ebbe l’ordine di partire, di circumnavigare la Sicilia e di ricongiungersi presso le coste calabresi con l’altra flotta proveniente da Brindisi. Il re scese con diecimila cavalieri e quarantamila fanti per via di terra verso il sud e, come azione preliminare allo sbarco in Sicilia, verso metà di luglio del 1284 pose l’assedio a Reggio Calabria che dal mare veniva bloccata da circa duecento navi. Pietro III preoccupato per le notizie che gli erano pervenute sull’entità dei preparativi nemici, malgrado le sue difficoltà in Aragona, mandò quattordici galee in soccorso della Sicilia.

Nei piani di Carlo I la conquista di Reggio Calabria, città fornita di modeste fortificazioni, doveva avvenire in pochi giorni. Invece la mastodontica spedizione non riusciva a superare l’ostacolo e il piccolo presidio siculo-aragonese resisteva, così che la conquista della città divenne lo scopo principale dell’offensiva. Durante l’assedio si vide che qualcosa non funzionava nella enorme macchina militare angioina. Vi era difficoltà a rifornire di viveri una così grande massa di combattenti; gli uomini, poi, raccolti da tanti paesi diversi (regno di Francia, Provenza, Italia centro-settentrionale, regno di Napoli), si battevano senza alcun entusiasmo. Ad agosto cominciarono le diserzioni in massa dall’esercito angioino.

Carlo I reagì nell’unico modo che gli era congeniale: con il terrore. Ordinò che ai saraceni di Lucera che disertavano fosse tagliato un piede, a scelta dell’autorità competente. Ai fratelli cristiani disertori fu invece riservato un trattamento di particolare favore: il piede da amputare era il sinistro. Da un po’ di tempo però il collaudato sistema del terrore non funzionava più: la dissoluzione dell’esercito angioino continuò. Allora a Carlo I non restò che ordinare la ritirata, che fu giustificata con la difficoltà dei rifornimenti e fu resa meno amara con l’assicurazione che nella primavera successiva vi sarebbe stata l’offensiva definitiva contro i ribelli. Il re angioino però non sapeva che prima della primavera del 1285 avrebbe avuto ben altri problemi: avrebbe dovuto giustificare davanti alla Giustizia divina l’operato della sua vita. Carlo I, infatti, morirà qualche mese dopo a Foggia il 7 gennaio 1285.

[ 1 ]  Introduzione
[ 2 ]  L’inizio della rivoluzione. La battaglia di Napoli
[ 3 ]  La vittoria dei Siciliani. La reazione di Carlo I
[ 4 ]  L’alleanza con l’Aragona
[ 5 ] Continua

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